COSENZA, DOPO L’AGGUATO IN VIA LANZINO I KILLER SBAGLIARONO STRADA E TRANSITARONO DAVANTI AL TRIBUNALE
di Eugenio Orrico
Voleva sedersi al tavolo della gente che conta Michele Bruni. L’erede della famiglia “Bella bella” (deceduto negli anni passati a causa d’un brutto male) aspirava ad avere un posto di primo piano nell’ambiente criminale del capoluogo bruzio e desiderava, pure, un pezzo di quella ghiotta torta delle estorsioni, del traffico di droga e di tutte le attività satellite che fruttavano bei quattrini ai clan che all’epoca controllavano l’area urbana cosentina e la costa tirrenica. E poi c’era l’omicidio del padre che gridava vendetta. Quel sangue del capofamiglia, che aveva inzuppato il sedile d’una Mercedes marrone, a poche centinaia di metri dall’ingresso del carcere di via Popilia, da cinque anni attendeva d’essere lavato come si conviene nell’universo delle ’ndrine.
Le aspirazioni del rampollo della famiglia “Bella bella” si coagularono, trovarono un senso, la mattina del 28 luglio del 2004 con l’agguato portato a termine in via Roberta Lanzino. Il copione di ciò che avvenne quel giorno, poco dopo le 8.30, lo hanno scritto nel corso del tempo i vari pentiti. E nei giorni scorsi il capo della Procura antimafia di Catanzaro Nicola Gratteri, il pubblico ministero antimafia Camillo Falvo e il capo della Dia Antonio Di Turi, hanno tracciato il seguito di quella storia nelle pagine di un’ordinanza che ha portato alla notifica di sei misure cautelari nei confronti dei fratelli Daniele e Carlo Lamanna, Adolfo Foggetti, Mario Attanasio, Giovanni Abruzzese e Umile Miceli. I quali, secondo quanto hanno avuto modo di verificare gli investigatori, avrebbero supportato, con ruoli diversi, la missione di Michele Bruni. Missione che portò all’uccisione di Francesco Marincolo e al ferimento, incidentale, di Adriano Moretti.
Il piano era stato studiato nei minimi dettagli. Però quella mattina alcune cose non andarono per il verso giusto. Il ferimento di Adriano Moretti, per esempio. Quella fu una sbavatura nel quadro che Michele Bruni dipinse con dieci proiettili d’una Beretta calibro 9. Il ferimento del cognato di Gianfranco Ruà (elemento di spicco dei clan cosentini), che occupava il posto del passeggero sulla Fiat Cinquecento guidata da “Marincolo-Franc’u biondo”, fu un incidente per il quale “Bella bella junior” dovette chiedere scusa. Il passaggio davanti al tribunale fu un altro errore, poi. In quanto – secondo quel che racconta il pentito Daniele Lamanna – nei pressi del palazzo di giustizia i due fuggitivi incrociarono l’auto del pubblico ministero antimafia Eugenio Facciolla. E per tanto tempo Michele Bruni – racconta il collaboratore di giustizia – visse col cruccio d’essere stato riconosciuto, nonostante il casco integrale, dal magistrato. In ogni caso, le indagini su quell’omicidio – che segnò la fine della faida tra i clan e la firma d’un trattato di pace per spartirsi il territorio – si focalizzarono sin dall’inizio proprio su Michele Bruni. La vendetta per la morte del padre era una firma indelebile.