Arcangelo Badolati
Cosa nostra e ‘ndrangheta hanno un legame antico. Risalente ai tempi in cui Michele Navarra, padrino di Corleone, trascorreva il soggiorno obbligato a Gioiosa Ionica e Antonino Salomone passava da Africo prima di tornare in Sicilia dal Nord Italia. Un legame consacrato dal “comparaggio” di Mico Tripodo con Totò Riina e dal rapporto stretto da Paolo De Stefano prima con il palermitano Stefano Bontate, il “principe di Villagrazia” e, poi, con il catanese Nitto Santapola, “Zu Nittu”.
L’aiuto delle ‘ndrine
Così, quando si seppe che in Cassazione la pubblica accusa nell’ultimo atto del Maxiprocesso di Palermo, quello istruito da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, sarebbe stata sostenuta dal calabrese Antonino Scopelliti, i corleonesi si misero in movimento. Totò Riina, insieme con Bernardo Provenzano, Leoluca Bagarella, Giuseppe Piddu Madonia, rischiavano il carcere a vita. E bisognava fare qualcosa anche perché a Roma le cose stavano cambiando, l’aria era diversa: il ministro della Giustizia, Claudio Martelli, aveva sollecitato e ottenuto la rotazione nell’incarico di presidente di sezione in Cassazione e, perciò, non sarebbe più stato Corrado Carnevale il giudice chiamato a decidere dei destini dei padrini siciliani. Non solo: il nemico giurato, Giovanni Falcone, era stato nominato direttore degli affari penali del ministero di Grazia e Giustizia e si preparava a varare l’attesa riforma destinata a far nascere le procure distrettuali e la direzione nazionale antimafia. Occorreva pertanto “avvisare” gli “amici” che banchettavano nella Capitale, lanciare un messaggio inequivocabile, far capire loro che tradire gli antichi patti e fare passi falsi poteva costare caro a tutti. I siciliani, come primo passo, ordinarono perciò un omicidio “eccellente” – quello appunto del giudice Antonino Scopelliti – perchè tutti, a Roma, capissero quale sarebbe stata la musica se le condanne del “Maxi” fossero passate in giudicato. I siciliani chiesero il “favore” ai compari d’Oltrestretto che concorsero nell’esecuzione del delitto.
Siamo nella tarda serata del 9 agosto del 1991: Giovanni Falcone, direttore generale degli Affari Penali di via Arenula, si reca sul luogo dell’agguato e capisce subito quello che sta accadendo. Al ministro Martelli, dice nell’immediatezza: «questa non è una questione calabrese. Qui c’entra Cosa nostra e c’entra il maxiprocesso». Ha ragione, ancora una volta il suo proverbiale intuito non lo tradisce. Nessuno, però, tranne il Guardasigilli, sembra dargli retta. I corleonesi, intanto, nonostante il preciso messaggio di morte lanciato con l’omicidio Scopelliti, comprendono che nella Città Eterna gli “amici degli amici” continuano a rimanere sordi. Il Maxiprocesso, infatti, viene discusso in Cassazione e la sentenza di Palermo confermata il 30 gennaio 1992 e, con essa, il cosiddetto “teorema Buscetta”. È la fine: gli ergastoli passano in giudicato come decine e decine di altre pene. I corleonesi perdono la faccia e si sentono traditi dai vecchi protettori politico-istituzionali. E passano alla strategia terroristico-mafiosa. Verrà, così, il tempo delle bombe.
Le parole di Spatuzza sullo stragismo
Cosa Nostra, dopo la sentenza definitiva del Maxiprocesso di Palermo, si lancerà in un’avventura stragista simile a quella attuata in Colombia da Pablo Escobar contro il governo che voleva consegnarlo agli Stati Uniti.
E, contestualmente, spedirà sottoterra l’eurodeputato Salvo Lima, capo della corrente di Giulio Andreotti in Sicilia e “garante” della mafia nei rapporti con le Istituzioni e, con lui, l’esattore Ignazio Salvo. Saranno quindi assassinati i magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e, infine, i corleonesi tenteranno di gettare il Paese nel caos con attentati dinamitardi compiuti a Roma, Milano e Firenze. «Facciamo la guerra» dirà Totò Riina ai suoi sodali «per fare la pace».
I “cugini” della ‘ndrangheta verranno avvisati e coinvolti nel progetto anche perché complici nel delitto Scopelliti. Una parte degli ‘ndranghetisti convocati in un summit a Nicotera rifiuterà di partecipare allo stragismo, un’altra parte, riservatamente, ne sarà invece protagonista attraverso tre attentati compiuti tra il 93 e il 94 contro i carabinieri. Uno degli attentati costerà la vita, sull’autostrada Sa-Rc a due militari di Palmi. Sul possibile coinvolgimento dei calabresi nello “stragismo” è in corso un processo a Reggio, istruito dal procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo. Fino alla conclusione della vicenda giudiziaria dovremo però considerarlo un coinvolgimento “presunto”. È stato tuttavia Gaspare Spatuzza, uomo di fiducia dei fratelli Graviano di Brancaccio a mettere gli inquirenti calabresi su questa pista. Spatuzza, detto “u tignusu”, racconterà ai magistrati prima siciliani e poi calabresi che, quando nel 1994 vennero uccisi due carabinieri sull’autostrada Sa-Rc e altri due furono gravemente feriti alla periferia di Reggio, Giuseppe Graviano si lasciò scappare che «dovevamo fare la nostra parte perché i calabresi si erano mossi uccidendo due carabinieri e anche noi dovevamo dare il nostro contributo. Il nostro compito era abbattere i carabinieri…».
Già, perché alla riunione di Nicotera seguirono altri e più riservati incontri a Melicucco e Oppido. Incontri nei quali una parte significativa delle cosche più temute della provincia reggina decise di appoggiare segretamente la strategia stragista di Cosa Nostra . I corleonesi, sempre nel 94, avrebbero dovuto uccidere un centinaio di carabinieri davanti all’Olimpico di Roma.
(arc.bad.)
Il primo processo istruito a Reggio
La procura distrettuale antimafia di Reggio Calabria ha già istruito, negli anni 90, un processo contro la “cupola” di Cosa Nostra siciliana ritenendola responsabile d’aver ordinato l’omicidio del sostituto procuratore generale della Cassazione Antonino Scopelliti. L’inchiesta nacque dalle rivelazioni fatte dai collaboratori di giustizia reggini Giacomo Ubaldo Lauro e Filippo Barreca. Entrambi riferirono che l’assassinio del magistrato era stato deciso in accordo tra la direzione strategica della mafia isolana a forte trazione corleonese e la cupola della ‘ndrangheta della provincia di Reggio Calabria. Una tesi pure rilanciata dai pentiti siciliani Pino Marchese, cognato di Leoluca Bagarella, Gaspare Mutolo, autista storico di Totò Riina e Domenico Farina, malavitoso catanese. Finiranno perciò a giudizio i maggiorenti della mafia isolana: Totò Riina, Pippo Calò, Francesco Madonia, Giacomo Gambino, Giuseppe Lucchese, Bernardo Brusca, Salvatore Montalto, Nenè Geraci, Pietro Aglieri e, dopo di loro, Bernanrdo Provenzano, Giuseppe e Filippo Graviano, Raffaele Ganci e Nitto Santapola. Dopo le condanne inflitte in primo grado saranno tuttavia tutti assolti con sentenza definitiva. Nella nuova indagine condotta dal procuratore aggiunto di Reggio Calabria Giuseppe Lombardo e dal procuratore Giovanni Bombardieri c’è, rispetto ai processi degli anni 90, un elemento di riscvontro: il ritrovbamento dell’arma usata per ammazzare Nino Scopelliti.
Prima di uccidere il togato Cosa nostra aveva pensato di avvicinarlo. Nel 2011, durante un convegno tenuto a Palermo, Rosanna Scopelliti, figlia del magistrato, rivelerà che erano stati stanziati 5 miliardi di lire per “comprare” il padre. Un’offerta che un uomo come Scopelliti – definito da Giovanni Falcone “un esempio di capacità professionale e impegno civile” – mai avrebbe accettato.
Fonte: Gazzetta del Sud