Piero Gaeta – Reggio calabria
Nonostante i 28 anni trascorsi, la Dda di Reggio Calabria non ha mai perso le speranze di trovare le prove per inchiodare i responsabili dell’assassinio del sostituto procuratore generale della Corte di Cassazione Antonino Scopelliti, avvenuto il 9 agosto del 1991 a Piale nei tornanti che da Villa San Giovanni portano a Campo Calabro. L’aveva detto qualche tempo fa Federico Cafiero de Raho («prima o poi prenderemo quegli assassini») e poi l’ha ripetuto anche l’attuale procuratore Giovanni Bombardieri quando ha annunciato il ritrovamento dell’arma usata per compiere quel barbaro omicidio di mezz’estate. Entrambi, evidentemente, nutrivano grande fiducia nel “fiuto” investigativo del procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo, il quale ha messo insieme, con grande acume, tutte le tessere di un mosaico che, per anni, era sembrato impossibile comporre.
Lo scenario in cui era maturato quest’omicidio eccellente era stato da tempo delineato dalla Dda reggina, mancavano però le prove per sostenere le accuse. E la nuova linfa alle indagini coordinate da Lombardo l’ha portata il pentito catanese, Maurizio Avola, il quale, oltre a parlare e raccontare al procuratore antimafia cosa sarebbe avvenuto in quella maledetta primavera del 1991 a Trapani, avrebbe fatto ritrovare l’arma che fu usata dal commando mafioso per uccidere il giudice Scopelliti e che era stata sepolta nelle campagne catanesi.
Avola avrebbe illustrato la volontà di Matteo Messina Denaro, da un quarto di secolo inafferrabile primula rossa di Cosa Nostra, di eliminare il magistrato reggino. E per farlo “cosa nostra” doveva stringere un patto scellerato con la ‘ndrangheta (fatto già ampiamente emerso nell’inchiesta, sempre coordinata da Giuseppe Lombardo. “’ndrangheta stragista” da cui è sfociato un processo che è in corso di svolgimento davanti alla Corte d’Assise di Reggio Calabria).
Secondo il pentito catanese la decisione sarebbe maturata in un summit che sarebbe avvenuto a Trapani nel 1991, pochi mesi prima, quindi, dell’uccisione di Scopelliti. E nel registro degli indagati della Dda reggina sono finiti nomi che appartengono ai livelli più alti di Cosa Nostra e della ‘ndrangheta. Alcuni dei quali farebbero anche parte di quella cupola invisibile masso-mafiosa (come Giovanni De Stefano già condannato a 20 anni dal gup con il rito abbreviato) che il procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo sta processando (cinque indagini confluite nel maxi processo Gotha) dinnanzi al Tribunale di Reggio Calabria.
La nuova piega presa dall’inchiesta dell’omicidio Scopelliti ha “svegliato” anche la commissione parlamentare antimafia. La vicepresidente Jole Santelli, il capogruppo Andrea Vitali e tutto il gruppo di FI hanno scritto al presidente Nicola Morra per chiedere «un’audizione urgente della Dda di Reggio Calabria, e in particolare del dottor Giovanni Bombardieri. L’omicidio Scopelliti può essere considerato il primo atto della “stagione delle stragi” che insanguinarono l’Italia negli anni 92/93. Pertanto, risulta di estrema importanza comprendere i nuovi sviluppi prospettati dalla Procura di Reggio Calabria per la lettura d’insieme degli anni successivi».
Gli indagati
I siciliani
Tra i 17 indagati dai magistrati della Dda di Reggio Calabria sette sono siciliani: Matteo Messina Denaro, Marcello D’Agata, Aldo Ercolano, Eugenio Galea, Vincenzo Salvatore Santapaola, Francesco Romeo e Maurizio Avola.
I calabresi
E questi sono i nomi dei dieci reggini indagati: Giuseppe Piromalli, Giovanni e Pasquale Tegano, Antonino Pesce, Giorgio De Stefano, Vincenzo Zito, Pasquale e Vincenzo Bertuca, Santo Araniti e Gino Molinetti.
Fonte: Gazzetta del Sud