La ‘ndrangheta contro lo Stato. Il 18 gennaio del 1994 sull’autostrada del Mediterraneo vennero uccisi due carabinieri della compagnia di Palmi: Antonino Fava e Vincenzo Garofalo. Si trattò – secondo la Dda di Reggio Calabria – di un duplice omicidio collegato alla cosiddetta strategia stragista decisa dalla “cupola” corleonese di Cosa nostra per costringere lo Stato a scendere a patti. Una tesi oggetto di verifica in un dibattimento in corso davanti alla Corte di assise reggina. Garofalo e Fava sono stati ricordati, sabato scorso, con delle iniziative pubbliche e una messa celebrata nella concattedrale di Palmi. Gli assassini dei militari, i killer reggini Giuseppe Calabrò e Consolato Villani, colpirono l’Arma nel quadro del piano terroristico-mafioso altre due volte: la notte tra il 1 e il 2 dicembre del 1993, attuando una sorta di prima “prova” nel quartiere Saracinello, nella zona periferica meridionale di Reggio, aprendo il fuoco contro una pattuglia composta dai militari Vincenzo Pasqua e Silvio Ricciardo che rimasero feriti. Successivamente, dopo l’agguato mortale compiuto sull’autostrada a gennaio, ripresero a sparare l’11 febbraio a Saracinello, ancora una volta prendendo di mira una pattuglia del Nucleo radiomobile. Gli attentatori fecero fuoco all’impazzata contro il veicolo con i colori d’istituto su cui siedevano Bartolomeo Musicò e Salvatore Serra. Volevano ucciderli, ma la reazione di fuoco dei carabinieri impedì loro di completare la missione di morte. Serra e Musicò rimasero gravemente feriti ma vivi.
Attentati alle caserme
La mafia calabrese, a lungo sottovalutata, ha tuttavia spesso colpito le forze dell’ordine per proprie finalità e in assoluta autonomia rispetto ai compari siciliani. Il primo attacco diretto venne compiuto il 13 settembre del 1966, contro una pattuglia della Polizia di Stato, guidata dal maresciallo Gregorio Anello, in via Tripepi, nel cuore di Reggio. Un “picciotto” lanciò una bomba all’indirizzo dei poliziotti che scamparono alla morte solo grazie alla prontezza di riflessi: riuscirono infatti a lanciarsi fuori dall’auto pochi attimi prima dell’esplosione. Fu il primo segnale d’una strategia più ampia che andò avanti negli anni successivi. La notte del 15 settembre del 1968 un ordigno ad alto potenziale venne infatti fatto esplodere davanti all’ingresso del commissariato di pubblica sicurezza di Gioia Tauro e distrusse porte e finestre ferendo un agente; il 13 marzo del 1969 stessa azione venne portata a termine contro la caserma dei carabinieri di Bagnara e, il 13 ottobre successivo, contro il commissariato di Palmi. Le “bombe” erano una chiaro segnale di sfida e, soprattutto, fungevano da indiretto messaggio all’opinione pubblica perché tutti i cittadini comprendessero chi comandava davvero. Con gli “sbirri” era inutile collaborare e così come venivano colpite con facilità le loro basi operative poteva essere colpito chiunque.
I poliziotti nel mirino
Quando il 26 ottobre di quell’anno venne interrotto il summit delle cosche a Montalto si scoprì che nell’occasione si stava discutendo anche della opportunità di eseguire un agguato in danno del temuto questore di Reggio Calabria, Emilio Santillo, e del dirigente di polizia Alberto Sabatino. A quest’ultimo erano già arrivate pesanti lettere di minaccia. In una c’era scritto: «Tu hai fatto parlare i giornali, noi faremo parlare i previti». Dopo il blitz portato a termine in Aspromonte alla Polizia di Stato venne lanciato un ulteriore pesante e inequivocabile avvertimento: il 7 dicembre fu piazzata e fatta deflagrare una bomba proprio davanti alla Questura reggina. Saltarono tutti i vetri dell’edificio e delle palazzine vicine ma non ci furono, per fortuna, vittime. L’8 aprile del 1970 un altro ordigno venne collocato davanti alla caserma dei carabinieri di San Martino di Taurianova, luogo ove risiedeva Giuseppe Zappia, il padrino che aveva presieduto il summit di Montalto.
Il magistrato ucciso
Nel 1975 venne ammazzato un magistrato scomodo e incorruttibile: Francesco Ferlaino, avvocato generale di Catanzaro, autore di clamorose inchieste contro le gang dell’”Anonima sequestri” e, soprattutto, fiero oppositore delle infiltrazioni mafiose nell’ambito della Massoneria. Il togato capì per primo e tentò d’impedire l’ingresso dei padrini in alcune logge. Ferlaino fu trucidato sul corso Nicotera, a Lamezia Terme, in una calda mattinata di luglio. Negli anni a seguire, tra il 77 e il 79, bombe distrussero le auto o le case di vacanza di altri giudici, funzionari dell’amministrazione penitenziaria, agenti di custodia, avvocati. La ‘ndrangheta mostrava di essere capace di usare il tritolo non solo contro imprenditori, aziende impegnate nella realizzazione di opere pubbliche e commercianti per imporre la legge del “pizzo” ma era sempre pronta a colpire pure i rappresentanti dello Stato e dell’avvocatura.
I militari trucidati
La ferocia della ‘ndrangheta emerse pure quando i boss calabresi, riuniti nell’aprile del 1977 nelle campagne di Taurianova, in contrada Razzà, per spartirsi i subappalti della superstrada Ionio-Tirreno, non esitarono ad uccidere barbaramente altri due carabinieri della compagnia di Palmi, Stefano Condello e Vincenzo Caruso, che avevano fatto irruzione nel casolare dove si stava svolgendo la “riunione”. Un terzo militare che era rimasto vicino all’auto di servizio si salvò e lanciò l’allarme.
Barbari delitti
Nel decennio 82-92 la violenza contro esponenti e servitori dello Stato non diminuì d’intensità: una bomba nel 1982 venne collocata all’ingresso della Questura di Cosenza, mentre nell’85, a marzo, nella città bruzia fu ammazzato il direttore del carcere, Sergio Cosmai, poco incline a piegarsi ai diktat dei padrini che vi erano reclusi. Due mesi prima, il 6 febbraio, a San Luca, era stato assassinato il brigadiere dei carabinieri Carmine Tripodi, considerato una spina nel fianco dai gruppi che nella Locride gestivano i sequestri di persona. Stessa sorte toccò, a Bovalino, la notte del 9 settembre 1990, al brigadiere Antonio Marino in servizio a San Ferdinando, nella Piana di Gioia Tauro, ma fino al 1988 nemico giurato dei sequestratori che imperversavano a Platì. Era stato lui a condurre le indagini sul rapimento del piccolo Marco Fiora ed a sventare il sequestro dell’imprenditore Claudio Marzocco. Il nove agosto del 1991, a Villa San Giovanni, fu ammazzato a colpi di fucile il sostituto procuratore generale della Cassazione, Nino Scopelliti, nell’ambito di un patto siglato tra mafia calabrese e Cosa nostra siciliana. Il magistrato avrebbe dovuto sostenere nell’ultimo grado di giudizio la pubblica accusa nel maxiprocesso di Palermo. La sera del 4 gennaio 1992, a Lamezia Terme, due sicari trucidarono invece il sovrintendente di Polizia, Salvatore Aversa, memoria storica del commissariato, e la moglie, Lucia Precenzano. Pochi mesi dopo, nella notte tra il 18 e 19 marzo del 1993, la tomba che nel piccolo cimitero di Castrolibero, custodiva le spoglie delle due vittime, venne incendiata. Un gesto di ulteriore e finale disprezzo della ‘ndrangheta nei confronti dell’investigatore che ricalcava perfettamente quello compiuto, sette anni prima, nel 1986, all’interno del cimitero di Limbadi dove venne divelta la lapide e incendiata la bara in cui era stato inumato il maresciallo dei carabinieri Saverio Laganà, il sottufficiale che più di chiunque altro aveva sfidato e combattuto i capibastone della Piana di di Gioia Tauro. Il militare era morto per cause naturali nel 1966. Laganà verrà ricordato a Maierà, piccolo centro del Cosentino dove aveva prestato serivito da giovane, sabato prossimo.