di Arcangelo Badolati
Il peso di un assedio. Nicola Gratteri è antipatico. Mostra una insopportabile audacia ribelle, coltiva l’inguaribile vizio del politicamente scorretto, non ha la erre moscia tipica dell’intellettualoide snob ma ostenta un incorregibile accento calabrese; non è poliglotta e parla un pessimo inglese, non ama le barche, lo sci, il tennis, non pratica lo snorkeling, non frequenta i circoli di società e quando ha del tempo libero zappa la terra e pianta alberi. Insomma, è antipatico. Dev’essere per questo che
da anni è vittima di costanti attacchi concentrici legati alla intensa attività d’indagine svolta nella veste di magistrato inquirente. Quando operava a Reggio Calabria, prima come pubblico ministero e poi come procuratore aggiunto, se ne sminuiva la portata professionale indicandolo come il magistrato specializzato solo nel contrasto ai narcotrafficanti. La menzogna era doppia sia perchè non era vero, come dimostrano decine di inchieste condotte contro amministratori della Locride complici delle cosche, sia perché usando strumentalmente l’argomento non gli si riconosceva volutamente il merito di aver costruito una rete di rapporti con le grandi polizie internazionali attive nella lotta alla ‘ndrangheta ed ai trafficanti calabresi padroni del mercato europeo della cocaina. Gratteri, facendo luce sulle trame ordite dalle cosche, sui loro investimenti, sulle sanguinose faide che ne caratterizzano la storia, è entrato proficuamente in contatto con strutture investigative statunitensi, canadesi, australiane, tedesche, colombiane, boliviane, olandesi, messicane, francesi, spagnole, turche, greche, serbe, iugoslave, inglesi diventandone, come già era stato per Giovanni Falcone, il punto di riferimento stabile nel nostro Paese. In certi ambienti, soprattutto in quelli della stessa magistratura, una condizione professionale del genere suscita più mugugni che apprezzamenti. Se, poi, alla operatività professionale si aggiunge la logica attenzione ottenuta dalla stampa nazionale e internazionale, il “gioco” volto alla strisciante e costante delegittimazione diventa ancora più raffinato e, a volte, spietato. Nulla di nuovo sotto il sole: sono tutte cose già viste e sperimentate proprio con Falcone che ebbe tra i suoi stessi colleghi i più feroci avversari. Il magistrato siciliano, poi ucciso da Cosa Nostra, si candidò a guidare l’Ufficio istruzione di Palermo e venne bocciato; si candidò al Csm e non fu votato; ottenne la nomina a procuratore aggiunto di Palermo e venne costretto a fare anticamera per ore, alla stregua di un commesso, davanti alla porta del suo capo Pietro Giammanco; quando assunse la guida della Direzione generale degli Affari penali del ministero di Grazia e Giustizia fu addirittura tacciato d’essersi venduto alla politica e, infine, persino accusato di aver tenuto nei cassetti i fascicoli d’indagine che riguardavano i politici siciliani. Non iscritto a nessuna delle correnti della magistratura italiana, il procuratore di Catanzaro appare isolato rispetto a una parte del suo stesso ambiente e, invece, sostenuto da larghe fasce della popolazione. Inviso alla criminalità organizzata, come si evince da decine di intercettazioni eseguite dalle forze dell’ordine, continua tuttavia ad assestare colpi significativi alle più potenti cosche operanti nell’area centrosettentrionale della Calabria. Non solo: a lui si deve l’apertura delle indagini da parte della procura di Salerno sul malaffare sviluppatosi nel mondo giudiziario del distretto di Catanzaro. E’ stato infatti Gratteri a mandare ai colleghi campani le emergenze investigative che ponevano il presidente della Corte di assise, Marco Petrini, nella imbarazzante veste di toga corrotta, in grado di aggiustare, dietro compensi in denaro, delicate vicende processuali. L’attivismo professionale, tuttavia, non sembra portar bene e produrre effetti positivi. Le ultime polemiche vedono il procuratore di Catanzaro addirittura indicato da più parti come un furente antisemita alla stregua quasi d’un novello Goebbels. La colpa? Aver scritto la prefazione ad un libro scritto da un collega e da un medico parlando, ancora una volta, del pericolo d’infiltrazione delle mafie nella gestione dei fondi previsti in favore della ripresa economica dopo la crisi scatenata dalla pandemia. Non solo: al procuratore più famoso d’Italia si contestano addirittura connivenze con i no vax quando egli, come tutti i togati dell’ufficio che dirige, è regolarmente vaccinato. Incredibile, infine, quanto accaduto dopo la messa in onda della puntata di “Report” su Rai Tre dedicata alla ‘ndrangheta vibonese e al maxiprocesso “Rinascita- Scott”: Gratteri è stato giudicato al pari d’una sorta di Girolamo Savonarola della Giustizia, scampando al rogo solo perché non è più di moda. Nessuno, al contrario, s’è accorto che, forse, per la prima volta la ‘ndrangheta in quella occasione è stata rappresentata al Paese, grazie alla televisione, in tutta la sua diabolica pervasività. Nella trasmissione vengono riprodotti filmati ormai pubblici perchè allegati agli atti d’inchiesta, nei quali gli ‘ndranghetisti minacciano imprenditori, estorcono denaro, presentano ai loro “compari” di malefatte il direttore di un’agenzia bancaria, tengono summit in località isolate del Vibonese e pianificano strategie criminali. “Report” propone pure la toccante testimonianza dei genitori di Matteo Vinci, il biologo ucciso con un’autobomba a Limbadi. Gli anziani e addolorati congiunti rivelano la causale dell’attentato, legandola alla volontà della famiglia di non cedere un appezzamento di terreno a esponenti delle consorterie locali. La testimonianza è drammatica e dimostra come la mafia calabrese mantenga l’abitudine di ricorrere alle espropriazioni private non rinunciando ad esercitare il proprio potere anche in campo agricolo. Nicola Gratteri ripete da anni:<Ho la guerra in testa!>. Non si tratta di un’affermazione apodittica ma di una presa di coscienza della realtà che molti rifuggono. Boss e picciotti, infatti, tengono la Calabria (e non solo) in una condizione di permanente conflitto: sparano, incendiano, fanno esplodere ordigni, minacciano, corrompono come avviene nelle aree abitate da comunità belligeranti. Aree nelle quali, spesso, il confine tra il bene e il male diventa sottilissimo. E per impedire che quel confine scompaia del tutto occorre combattere. Metro per metro, casa per casa, paese per paese. Come si fa nei teatri di guerra.