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COSENZA
Arcangelo Badolati

Il boss non se l’aspettava. Quando i poliziotti della Mobile sono andati a prenderlo ha faticato a tenere i nervi a posto. Fabio Catalano e i suoi uomini sventolavano un provvedimento restrittivo fresco di stampa, emesso dalla Corte di assise di Cosenza. Gli stessi giudici che pochi giorni prima l’avevano condannato all’ergastolo hanno ieri deciso di arrestarlo. E Francesco Patitucci, 60 anni, dopo un breve passaggio in Questura e finito dritto dietro le sbarre. A richiederne la carcerazione sono stati il procuratore distrettuale Nicola Gratteri, l’aggiunto Vincenzo Capomolla e il pm antimafia Vito Valerio. Il padrino di Rende, già condannato per mafia con sentenza passata in giudicato, sott’inchiesta a Salerno per l’«aggiustamento» di un processo celebrato a Catanzaro dal giudice “corrotto” Marco Petrini e in attesa di conoscere la decisione della Cassazione sul procedimento che lo vede imputato di concorso nell’omicidio di Luca Bruni, “reggente” dell’omonima famiglia, non è tipo d’aver paura della galera. Epperò, nell’ultimo anno, le cose per lui si stanno mettendo male. La magistratura inquirente antimafia gli sta col fiato sul collo e le forze dell’ordine ne controllano ogni mossa. Due settimane fa, Patitucci era stato sorpreso in piazza Zumbini, a Cosenza, dalla squadra volante mentre doveva trovarsi in quarantena a causa del Covid 19. Tre giorni addietro, dopo 35 anni, è stato riconosciuto colpevole e condannato al carcere a vita per un feroce duplice omicidio compiuto nelle campagne rendesi nel lontano febbraio del 1986. Marcello Gigliotti, neofascista con aspirazioni da boss e abile pistolero, insieme con il suo più caro amico e “compare”, Francesco Lenti, vennero invitati a partecipare a una mangiata di maiale. Il pranzo venne organizzato in un’abitazione nella disponibilità di Patitucci. Secondo i pentiti Franco Pino, Umile Arturi, Roberto Pagano (condannato già con sentenza definitiva per il fatto di sangue), Franco Garofalo e Antonio De Rose, la “mangiata” non fu organizzata per trascorrere delle ore in allegria ma per attirare in trappola Lenti e Gigliotti. Arrivati nell’abitazione di campagna, Lenti venne subito decapitato e Gigliotti successivamente seviziato e interrogato perché dicesse dove nascondeva delle audiocassette compromettenti per l’intera cosca all’epoca guidata da Franco Pino. Alla fine pure lui venne assassinato con un colpo di fucile. Per la duplice esecuzione l’Assise catanzarese (presidente Cosentino, a latere Commodaro) ha inflitto l’otto aprile scorso vent’anni di reclusione a Gianfranco Bruni e Gianfranco Ruà, riconoscendo loro le attenuanti generiche. In primo grado avevano entrambi incassato – con rito abbreviato – 30 anni dal Gup. Tra il primo e il secondo grado di giudizio, tuttavia, i due ergastolani hanno inteso confessare la loro diretta partecipazione al barbaro crimine offrendo una versione completamente diversa rispetto a quella prospettata, in circostanze e tempi differenti, dai collaboratori di giustizia. Una versione ritenuta credibile dai giudici di Catanzaro e bollata invece in aula dal procuratore generale Salvatore Di Maio, come strumentale a scagionare il boss di Rende, Francesco Patitucci. Quest’ultimo, infatti, finito intanto a giudizio davanti ai magistrati di Cosenza (presidente Giovanni Garofalo, giudice a latere Urania Granata) è stato condannato, una settimana dopo, all’ergastolo su richiesta del procuratore Camillo Falvo. I giudici di Cosenza non hanno creduto alla genuinità della confessione resa da Bruni e Ruà. Patitucci, difeso dagli avvocati Marcello Manna e Luigi Gullo, ieri è stato arrestato per effetto della condanna al carcere a vita.