l Pm Lombardo: “Registrati colloqui in carcere dove si presuppone la minaccia a fini di ritrattazione”
Ieri sentito il killer degli attentati ai carabinieri
di Davide de Bari
“E’ tutto frutto della mia fantasia, non ci sono stati mandanti per gli attentati ai carabinieri. Non mi ha mandato nessuno. Siamo stati noi ragazzi. Scellerati e ingenui. Gli unici responsabili siamo io e Consolato Villani”. Colpo di scena, giovedì, al processo ‘Ndrangheta stragista dove il testimone Giuseppe Calabrò ha deciso di ritrattare quanto aveva raccontato riguardo suo cugino e zio, Antonio e Rocco Santo Filippone.
Calabro è uno dei testimoni chiave del processo, killer, insieme al pentito Consolato Villani, dell’omicidio dei carabinieri Fava e Garofalo e dei ferimenti di altri quattro militari per i quali oggi rispondono in qualità di mandanti: il capomandamento di Brancaccio (Palermo) Giuseppe Graviano, attualmente al 41 bis e fedelissimo di Totò Riina, e Rocco Santo Filippone, legato, secondo l’accusa, alla potente cosca calabrese dei Piromalli di Gioia Tauro.
In passato il collaboratore, in un interrogatorio del 2014, ai magistrati di Reggio Calabria aveva raccontato e confermato quanto aveva scritto in una lettera, poi mai inviata, indirizzata al procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso. In quel documento sosteneva che “successivamente a una riunione nel ’93 a Melicucco, dove presero parte anche siciliani, mio cugino Totò, figlio di Rocco Santo Filippone mi disse di attentare alla vita di uomini delle forze dell’ordine”. In aula, però, davanti alla Corte d’assise, Calabrò è tornato sui suoi passi. Secondo il procuratore aggiunto Lombardo sarebbe stata la madre di Calabrò a “minacciare” il collaboratore di cambiare versione. Infatti vi sono delle conversazioni registrate in carcere, mentre i due erano a colloquio. “Fede… fedeltà… fedeltà” e “bocca chiusa.. che non sbagli mai – diceva Marina Filippone – Hai fatto vent’anni di galera, ricordati che hai due fratelli a Reggio Calabria, uno è un ragazzo. Pensaci bene a quello che fai, perché hai sofferto tanto, tutti hanno sofferto tanto. Abbiamo perso tanto, abbiamo perso oltre ai soldi anche Francesco”. Proprio per queste parole il procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo ritiene che la versione riferita in aula giovedì non sia quella vera. “Alla luce delle intercettazioni fatte in carcere tra Giuseppe Calabrò e la madre sono integrati i presupposti per il reato di minaccia ai fini di ritrattazione. – ha spiegato il pm alla Corte – Guarda caso Calabrò ammette tutto tranne le parti indicate dalla madre Marina Filippone (sorella dell’imputato Filippone, ndr), riguardanti il cugino e lo zio”.
La lettera a Grasso e la ritrattazione
Ma perché la testimonianza di Calabrò è tanto importante nel dibattimento? Era il 2012 quando Giuseppe Calabrò, dal carcere, decise di scrivere una lettera al procuratore nazionale antimafia dell’epoca, Pietro Grasso, in cui offriva una nuova versione sugli attentati ai carabinieri e, quando fu successivamente chiamato dai magistrati, confermò il quadro che già stava emergendo dalle indagini della Dda di Reggio e della Dna. Secondo quella ricostruzione, anche gli attentati di Reggio Calabria sono da inscrivere nella generale strategia della tensione avviata da mafie, settori dei servizi, della massoneria e dell’eversione nera per mantenere il potere costruito anche nel mutato quadro politico e imporre i propri interlocutori politici. Un anno dopo Calabrò ritratta, così come aveva più volte fatto nella propria storia di pentito, negando quanto aveva messo a verbale. Nell’ordinanza di custodia nei confronti di Graviano e Filippone si evince come il Gip non ha creduto alla “nuova versione”. Tuttavia giovedì Calabrò ha nuovamente tentato di annacquare le sue precedenti accuse.
“Nel 2009, quando fui interrogato dal sostituto procuratore nazionale antimafia Macri, mi disse che un pentito aveva parlato degli attentati ai carabinieri come attentati terroristi. Così poi decisi di scrivere quella lettera, ma per gioco. – ha detto – Sto dicendo la verità. Non so darmi la risposta neanche io”. Quel documento non fu mai spedito al procuratore. Diversamente una copia dello stesso fu inviata da Gianluca Goglino, compagno di carcere di Giuseppe Calabrò, al carabiniere Riccardo Giardina, del quale Goglino era stato un confidente. Secondo Calabrò quella lettera in “parte era vera in parte no”. Il pm Lombardo ha poi contestato a Calabrò che quei contenuti all’interno della missiva erano stati confermati da lui nell’interrogatorio del 7 maggio 2014. Ma il pentito ha poi spiegato che in quel periodo “ero sotto stress, mi sentivo pressato, e ho detto cose non vere. Nulla di tutto quello che era stato scritto nella lettera. Mio cugino mi ha dato solo armi. Eravate talmente convinti che ho detto cose non vere. Non meritavo quel trattamento. C’è anche la Cassazione su quanto dico io”. Ed è qui che poi il pm è esploso in quanto Calabrò ha insinuato che i magistrati lo avessero “minacciato”. Ma il teste ha continuato a dire che “è tutto falso, è vero solo quello che riguarda la dinamica degli attentati”.
Le spiegazioni date in aula, però, sono apparse anche illogiche, così come ha dimostrato il pm nel corso dell’esame.
Gli attentati ai carabinieri
Parlando degli attentati il racconto è iniziato a partire da quello del 2 dicembre del 1993 dove rimasero feriti i carabinieri Silvio Ricciardo e Vincenzo Pasqua, per poi passare alla strage di Scilla, dove morirono i carabinieri Fava-Garofalo. Infine, quattordici mesi dopo, nel febbraio del 1994 durante un posto di controllo, rimasero feriti i carabinieri Bartolomeo Musicò e Salvatore Serra. Per quei delitti nei confronti delle forze dell’ordine il testimone ha dato così una nuova motivazione: “Mi vergogno di quello che ho fatto. È stata la giovane età, è stata incoscienza. Non mi ha mandato nessuno, non ci sono stati mandanti. Siamo stati noi ragazzi. Scellerati e ingenui. Gli unici responsabili siamo io e Consolato Villani“. E poi ancora: “Decisi di fare questi attentati per attirare l’attenzione delle forze dell’ordine, nella zona di Ravagnese visto che era sotto il controllo dei Latella, che volevano ammazzarmi – ha spiegato alla corte – in modo da scaricare la colpa su di loro. Io con loro avevo avuto dissapori, avevo compiuto omicidi per loro. Mi aspettavo di diventare qualcuno, mi aspettavo di ricevere un grado, di essere battezzato, era una mia aspettativa”. Quando poi Calabrò iniziò a frequentarsi con il fratello Francesco e Consolto Villani, il rapporto con i Ficara si ruppe definitivamente a detta del teste, in maniera “brusca”. Tornando a parlare delle motivazioni che c’erano dietro agli attentati il teste ha aggiunto: “Villani non sapeva che volevo colpire i Latella, a lui dissi che l’obiettivo era solo quello di sottrarre le armi ai militari”.
I carabinieri, Vincenzo Garofalo e Antonino Fava
“E’ stato un caso”
Ancora più inverosimile è apparsa la giustificazione data nel raccontare il secondo attentato, quello del gennaio 1994, dove rimasero uccisi i carabinieri Fava e Garofalo. “A distanza di un mese e mezzo abbiamo ripetuto questo gesto perché non siamo riusciti al primo tentativo. – ha raccontato – Abbiamo rubato un’ Opel Astra, a Melito Porto Salvo, e ci siamo diretti a Palmi attendendo una pattuglia”. Ancora una volta il pm lo ha incalzato in quanto, se l’obiettivo era quello riferito di colpire i Latella, appare poco comprensibile la scelta di spingersi fino a Palmi. Calabrò, a quel punto, è andato in difficoltà evidentemente arrampicandosi sugli specchi: “L’obiettivo era seguire la macchina fino a Ravagnese” (che dista da Palmi 40 chilometri). “È stato un caso, un errore, volevo uccidere vicino casa mia. Avevamo sempre lo stesso fucile e il mitra, l’obiettivo era andare verso Ravagnese ma poi ho proseguito così alla rinfusa. – ha raccontato – Il nostro obiettivo non erano carabinieri ma anche finanza, polizia, chiunque. Villani non sapeva che il mio obiettivo era colpire i Ficara-Latella. Scilla è stato un caso, ho sbagliato io ad avvicinarmi alla pattuglia li, la macchina ha accelerato e Villani ha sparato. Non era mia intenzione colpire a Scilla, mi è scappato l’acceleratore”. E qui che poi il pm ha sbottato: “Ma secondo lei sto qui a sentire le sue sciocchezze? Non utilizzi concetti logici falsi, l’agguato non è un caso”. Dopo l’avvertimento, Calabrò ha proseguito il racconto della sua “nuova” versione: “Dalla piazzola di sosta di Bagnara abbiamo aspettato un’oretta, quando è passata la pattuglia siamo partiti, guidavo io, andavo talmente veloce che Villani ha preso l’arma e ha sparato, è stato un caso non volevamo sparare li, volevamo sparare vicino casa mia. – ha continuato il racconto – Non ce l’abbiamo fatta a fermarci, era troppo rischioso e poi il mio fine non era prendere le armi, Villani credeva questo. Poi abbiamo proseguito fino a casa mia bruciando la macchina e abbiamo nascosto le armi”. Dopo il racconto, Lombardo gli ha detto: “Non esiste il caso”.
Le armi nel terreno dell’ex maresciallo in pensione
Alla domanda del pm su dove erano state nascoste le armi, Calabrò ha risposto: “Le avevamo nascoste in un bidone sotterrate, nel terreno del mio vicino. Non ricordo a chi appartenesse, forse a un ex maresciallo dei carabinieri in pensione”. E il procuratore Lombardo interviene: “Un caso che fosse proprio di un maresciallo dei carabinieri?”. “Non sapevo che il terreno fosse suo, l’ho saputo dopo, ho visto solo un terreno abbandonato e le ho messe lì. – ha risposto – L’ho saputo dopo. Non so se Villlani lo sapeva, ma dopo l’ha saputo”.
L’attentato nel febbraio 1994
Anche a febbraio, quando vi fu un nuovo attentato contro i carabinieri, la motivazione data da Calabrò era sempre quella di colpire i Ficara-Latella. Anche per questo motivo venne usato il medesimo mitra e lo stesso fucile: “Abbiamo utilizzato sempre la stessa arma perché dovevano capire che i tre episodi erano collegati. L’obiettivo fu raggiunto perché poi è arrivato l’esercito, era pieno di posti di blocco e non si poteva più camminare per le strade. Ci siamo fermati perché è venuta fuori la notizia che a sparare era stata la stessa arma. Dopo Fava e Garofalo non se ne erano accorti”. Una giustificazione poco convincente se si considera che per un esame balistico già al tempo non erano necessari tempi lunghi. E allora Calabrò si è riufugiato nuovamente dietro le “follie della gioventù” in quanto in quel momento “mi sentivo intoccabile”.
Calabrò, rispetto a quanto aveva fatto in precedenti interrogatori con i pm, ha raccontato di aver saputo da Mimmo Lo Giudice che quegli attentati erano voluti anche dai palermitani “per così”, ed ha anche negato di aver incontrato “la persona smendata e brutta” (il riferimento è a Giovanni Aiello alias “Faccia da mostro”, ndr) nei pressi del negozio di Mimmo Lo Giudice. “Non è vero – ha detto ieri in aula – ho visto solo la fotografia. L’ho visto in televisione, l’ho detto per darmi credibilità”.
La collaborazione e la versione sbagliata
Il percorso di collaborazione con la giustizia di Calabrò è da sempre stato complicato e già in passato era tornato sui suoi passi. “Dopo il mio arresto nel ’94 ho iniziato a collaborare ma ho detto cose non vere sotto pressione in quanto mi picchiavano anche per quello che era accaduto. Avevo paura. E quindi feci alcune dichiarazioni che dell’epoca erano sbagliate, una parte non vera era quella che gli attentati erano dovuti al traffico di armi. Ho messo in mezzo persone innocenti”. Secondo Calabrò fu questo “peso” che lo portò a interrompere la collaborazione nel 1998. “La mia famiglia voleva andare in Calabria, avevo detto cose non vere, mi sentivo sporco per aver coinvolto persone che non c’entravano”. Tuttavia Calabrò decise solo di uscire dal programma di protezione, senza compiere ulteriori azioni. E al pm Lombardo che gli ha chiesto il motivo per cui era giunto a quella decisione di ritrattate, di fatto, non ha risposto giurando semplicemente di “dire la verità”.
Nella prossima udienza, che si terrà il prossimo 27 settembre, Calabrò dovrà tornare in aula a deporre. L’esame del pm, infatti, non è ancora concluso, dopodiché toccherà anche alle parti civili e alle difese.
Dossier Processo ‘Ndrangheta stragista
In foto di copertina: l’assassinio dei carabinieri Antonino Fava e Vincenzo Garofalo