Le ha scovate l’archivista Francesco Caravetta, nei fascicoli custoditi in città. Una missiva porta il bollo degli uffici di polizia di New York e reca la firma di un grande investigatore
Due lettere autografe. Di rilevante importanza storico-criminale. Le ha scovate l’archivista investigativo Francesco Caravetta, nei fascicoli custoditi nell’Archivio di Stato di Cosenza. Una missiva porta il bollo degli uffici di polizia di New York e reca la firma di un grande investigatore: Joe Petrosino. Fu lui a lottare senza esclusione di colpi la mafia italo-americana che, all’inizio del secolo scorso, terrorizzava la “grande mela” usando il sinistro nome de “La mano nera”. I mafiosi calabresi e siciliani d’Oltreoceano compivano estorsioni e, per piegare i riottosi, usavano bombe artigianali e appiccavano incendi. Quando era necessario, soprattutto se qualcuna delle vittime osava denunciare i fatti alla polizia, i componenti dell’organizzazione non esitavano ad uccidere. Caravetta – che è autore di tre interessanti volumi dal titolo “Antichi delitti” e figura tra i componenti del comitato scientifico dell’Osservatorio nazionale “Falcone-Borsellino”- ha trovato la lettera che Petrosino scrisse, il 5 maggio del 1898, al prefetto di Cosenza chiedendo notizie di Arcangelo Oliveri, di San Giacomo di Cerzeto che aveva assassinato un cittadino americano, John Ryan, con tre colpi di revolver. L’uomo era poi fuggito dagli Usa rientrando in Calabria. Grazie alle indicazioni fornite dal superpoliziotto, successivamente ucciso a Palermo il 12 marzo del 1909, l’omicida venne individuato, arrestato e condannato a 8 anni di reclusione per il delitto compiuto negli States. A processarlo, nel settembre del 1899, fu la Corte di assise bruzia. Agli atti del dibattimento sono contenuti tutti i documenti trasmessi dagli Usa e la sconosciuta lettera del detective italiano. È la sola missiva fino al momento rinvenuta nel meridione d’Italia a firma di Joe Petrosino ed ha, per questa ragione, enorme importanza dal punto di vista storico-documentale. Il testo dimostra, inoltre, quanto importante fosse il lavoro investigativo condotto a cavallo di due continenti da Petrosino e la collaborazione che egli aveva instaurato anche con le forze dell’ordine e la magistratura calabresi. Non solo: una tesi, rimasta senza riscontri, ma basata sulle dichiarazioni rese ai magistrati italiani dell’epoca da Antonio Musolino, fratello del famoso brigante Giuseppe, emigrato per un periodo in America, tende ad accreditare un coinvolgimento anche dei “picciotti” calabresi nell’assassinio di Joe Petrosino avvenuto a Palermo 112 anni fa. Il poliziotto, insomma, dava fastidio – proprio per via della suo acume e della caparbietà dimostrata anche nel caso riguardante la vicenda ricostruita nel Cosentino – a tutti i mafiosi di origine italiana. La lettera del detective italoamericano riportata alla luce da Caravetta farà ora parte di una mostra in via di allestimento nell’Archivio di Stato bruzio. Una mostra nella quale verrà esposta anche un’altra “scoperta” fatta dall’archivista investigativo e scrittore. Si tratta della missiva di matrice estorsiva inviata dal brigante Giuseppe Musolino, nel settembre del 1901, al barone cosentino Collice al quale chiese una somma di denaro «non come ricatto» scrisse «ma come elemosina». Musolino era in fuga dalla Calabria ed aveva bisogno di soldi. Al nobiluomo chiese la dazione di 200 lire. Il brigante non ottenne il denaro e fu successivamente arrestato fuori dalla regione. Il documento dimostra come il “brigante”, forte della sua notorietà criminale, tentasse di lucrare illegittimamente soldi da possidenti e benestanti. Circostanza – quest’ultima – che egli invece sempre negò durante i processi in cui fu imputato.