In nome del padre. Luigi Cirillo ha imparato a fare il boss seguendo come un’ombra “don Peppino”, suo mentore e punto di riferimento, rimasto capo indiscusso della Sibaritide per più di vent’anni. Dal genitore, il quarantanovenne nato in Campania ma cresciuto nel Cassanese, ha imparato tutto: astuzia, cinismo, capacità di affabulazione, linguaggio, stile e movenze tipici dei boss. La storia di “Luigino” è controversa: oggi è indicato a capo di una holding del gioco d’azzardo e delle scommesse illegali attiva su scala internazionale; a metà degli anni 90 aveva, invece, intrapreso come il padre un percorso di collaborazione con la giustizia. Un percorso durato poco e conclusosi con una iniziale condanna a tre anni di reclusione poi caduta in prescrizione. Tornato in Campania, il figlio di “don Peppino” s’è messo a fare il “capo” o, almeno, così sostengono i magistrati della Direzione distrettuale antimafia di Salerno sulla base degli elementi raccolti. Elementi culminati nell’arresto di Cirillo e di altre 32 persone. In manette sono finiti pure Guendalina e Rocco Maria Femia, di 38 e 31 anni, figli di Nicola Femia, per lungo tempo “re” dei videopoker e del gioco d’azzardo, uomo legato ai Mazzaferro di Gioiosa Ionica, sua città di origine e, oggi, collaboratore di giustizia. Ed è proprio Femia, nella veste di pentito, a guidare i magistrati inquirenti salernitani, diretti dal procuratore Giuseppe Borrelli, nell’infinito e lucroso mondo delle scommesse internazionali.
Comparso davanti ai Pm nel 2017, “don Nicola”, temuto e riverito non solo in Calabria ma pure in Emilia Romagna, spiega: «Ho subito condanna per traffico di droga per vicende legate alla cosca Mazzaferro. Sono stato indagato per associazione mafiosa ma sono stato sempre prosciolto perché ero un “uomo riservato” di Vincenzo Mazzaferro di Gioiosa Ionica, che è stato ucciso». Per le questioni riguardanti il gioco d’azzardo, il padrino pentito chiarisce: «Sono indagato da varie Procure, tra cui Santa Maria Capua Vetere con il clan Schiavone, con il figlio di Sandokan, per concorso esterno ad associazione camorristica, mentre con la Procura di Roma sempre per giochi on-line illegali: in questo caso l’ipotesi di reato è di associazione a delinquere semplice quale affiliato di “Gino” Tancredi» Quest’ultimo risulta tra gli arrestati dell’operazione scattata l’altro giorno che coinvolge appunto Luigi Cirillo.
Nicola Femia incontrò Luigi Cirillo per la prima volta a Roma per il tramite di Tancredi. «Nel primo incontro che ho avuto nell’ufficio di Tancredi a Roma con Luigi Cirillo, costui mi fu presentato come una persona nipote del noto capo cosca ndranghetista Cirillo e che era stato in carcere anche lui. lo calabrese ben conoscevo la fama di quello che mi ha detto essere lo zio e che poi ho saputo essere invece il padre. Sono stato più volte a Mercato San Severino presso il suo bar e si vedeva che era una persona rispettata e che lo trattavano bene. Quando sono andato a Mercato San Severino ho visto personalmente nei locali del Cirillo deì monitor dei “Raceindog”, ho visto i totem sui quali qualche volta gli ho dato i crediti. Ci siamo sentiti fino a qualche giorno prima che mi arrestassero nel gennaio 2013». Ma non è finita: perché Femia rivela agli inquirenti campani un altro particolare: «L’anno scorso mia figlia mi ha detto che il Cirillo gli aveva detto nel 2016 di sapere che era indagato su Salerno e sospettava che fossi indagato anche io, ovviamente per le vicende dei giochi on fine illegali…».
Il collaboratore di giustizia accenna anche al giro di affari gestito dal figlio del defunto capobastone di Sibari. «Mi risultava avesse» sottolinea Femia «varie slot, credo 300 o 400 macchine collocate in numerosi punti gioco, tra Ancona, Montecatini Terme ed in altre località d’Italia….». Gli affari dunque andavano a gonfie vele già nello scorso decennio. In riferimento, invece, al peso criminale di Luigi Cirillo – che amava farsi chiamare Giuseppe come il padre – Nicola Femia precisa ai magistrati: «Circa il coinvolgimento mafioso camorristico del Cirillo posso dire che una volta parlando con Domenico Chiavazzo di Angri, mi disse che loro di Angri non c’entravano nulla con la zona di Mercato San Severino che era zona controllata dal Cirillo. Ovviamente quando diceva “controllo” il Chiavazzo intendeva controllo criminale». Contare nel mondo del crimine era fondamentale in quel tipo di affari e il pentito originario di Gioiosa Ionica lo chiarisce in modo inequivocabile: «Riguardo all’individuazione sul territorio degli operatori a cui fornire la piattaforma era ovvio che sia io che Tancredi selezionavamo operatori già commercialmente forti e in grado di diffondere il gioco e garantire i pagamenti con guadagni sicuri. Ovviamente al Sud è fatale che questi operatori debbano avere un controllo del territorio intendendo che spesso sono soggetti che direttamente o indirettamente costituiscono essi stessi, fanno capo o si appoggiano ad organizzazioni criminali in grado di dominare il territorio. In Campania, nel salernitano in particolare, io e Tancredi ci siamo rivolti a Cirillo perché lo ritenevamo, vista la sua parentela ed il fatto che fosse rimasto a lavorare sul territorio nonostante la collaborazione passata del padre, un imprenditore affidabile in grado di controllare la sua attività di impresa. So che Cirillo aveva rapporti d’affari nel settore dei giochi on line con un altro noleggiatore e rivenditore di slot di Caserta che a sua volta aveva legami con alcuni componenti del clan dei Casalesi…».