Un arsenale da guerra sotto il controllo della ‘ndrangheta. “Una rete molto vasta che porta in Francia e a Malta”, spiega il procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo.
REGGIO CALABRIA. Kalashnikov, fucili da guerra, arsenali pieni di munizioni. Pistole calibro 9 luger, Walter PPK, cal. 44 magnum. Tutte con matricola abrasa o punzonata, armi fantasma ma in grado di uccidere. E poi traffico e spaccio di hashish e marijuana. Due business, un’unica organizzazione, una sola matrice. La ‘ndrangheta.
A gestire la rete criminale in grado di controllare intere piantagioni di canapa, nascoste negli anfratti più impervi dell’Aspromonte, e di inondare il reggino di armi pesanti e da guerra erano uomini vicinissimi o organici ai clan Commisso e Cataldo, fra i più attivi della Locride. Ne facevano parte 36 persone, su richiesta della procura antimafia di Reggio Calabria guidata da Giovanni Bombardieri, oggi tutte raggiunte da un’ordinanza di custodia cautelare, perché accusatie a vario titolo di associazione a delinquere finalizzata al traffico di armi e di droga e detenzione illecita di armi clandestine e da guerra, più coltivazione di numerose piantagioni di canapa indiana e cessione di droga, prevalentemente hashish e marijuana.
In 15 sono finiti in carcere, 13 ai domiciliari, 8 dovranno quotidianamente all’autorità giudiziaria, perché – hanno scoperto gli uomini della Squadra mobile di Reggio Calabria – tutti erano inseriti con distinti ruoli e compiti nei traffici di armi e droga dei clan. “Si tratta di un’operazione importante perché attiene ai business criminali di un’organizzazione vicina a cosche storiche del territorio, come i Cataldo e i Commisso”. Famiglie rappresentate all’interno della rete da uomini vicini o organici come Bruno e Francesco Filippone per i Commisso e Domenico e Giuseppe Zucco per i Cataldo, che si occupavano di rifornire gli arsenali dei clan con pistole, fucili, mitra e munizioni.
“Al momento non sappiamo se queste armi siano state accumulate con un progetto preciso. L’indagine – spiega il procuratore – parte da conversazioni registrate nel 2014 in ambientale e da alcune operazioni di sequestro effettuate a riscontro delle informazioni captate”. Da allora non si sono scatenate faide nella zona, né c’è stata un’escalation di violenze “ma gli arsenali – ricorda Bombardieri – servono anche per tarare il peso criminale dei clan sul territorio”. Tanta più capacità di fuoco è in grado di produrre, tanto più un clan è temibile. E i Commisso e i Cataldo, negli ultimi anni duramente colpiti da arresti e condanne, probabilmente volevano dimostrare di essere ancora in grado di controllare quella fetta di Locride su cui storicamente dominano.
“È emersa una rete molto vasta, in grado di autofinanziarsi e mette le proprie risorse, in questo caso le armi, a disposizione di altri. Quella che abbiamo individuato è una struttura collegata e servente alla ‘ndrangheta, un organismo di servizio. Questo significa – spiega il procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo, che coordina le indagini antimafia sulla fascia jonica reggina – che la ‘ndrangheta si avvale di strutture che servono a gestire le relazioni con organizzazioni diverse. Abbiamo tracce significative di tali interlocuzioni” ma sul punto le indagini sono ancora in corso. “Uno dei canali – dice il procuratore aggiunto – porta a Malta”, altri – emerge dalle carte – dalla Francia via Nord Italia, altre dalla Sicilia.
Per scovare i canali di comunicazione e approvvigionamento della rete, gli investigatori della Mobile hanno analizzato migliaia di conversazioni telefoniche e ambientali, rese ancor più complesse e quasi incomprensibili dal linguaggio in codice usato dagli indagati. Pistole, fucili e kalashnikov nelle conversazioni fra gli arrestati diventavano “capre”, “biciclette”, “auguri”, “pacchi”, “capicolli”, oppure semplici numeri identificativi del calibro o del modello. Per tutte c’era un tariffario preciso, che variava a seconda di modello e condizioni. Milletrecento- millecinquecento euro per pistole e armi corte, qualcosa in più per i fucili, almeno 2.400 per il Kalashnikov, che – dice uno degli aspiranti acquirenti intercettato – “sono bellissimi, ma sono cari”.
Sono stati necessari pazienza, costanza e innumerevoli servizi di osservazione e pedinamento, ma gli investigatori sono riusciti a individuare gli stabili fornitori, una sorta di broker delle armi, Maurizio Napoli e Giorgio Timpano e i vertici dell’organizzazione Antonio Lizzi, Giuseppe Arilli e Bruno Filippone, ma anche corrieri, galoppini e collaboratori. “Abbiamo chiuso un’armeria dei clan” sintetizza soddisfatto il questore Raffaele Grassi. Ma le indagini – si lasciano sfuggire inquirenti e investigatori non sono concluse – perché adesso è partita la caccia a “produttori” e “fornitori all’ingrosso” delle armi.
Monitorando la rete, gli uomini della Mobile hanno poi capito che le armi non erano l’unico business del gruppo. La medesima rete gestiva anche uno strutturato traffico di hashish e marijuana, spesso coltivata anche “in proprio” in una serie di piantagioni nascoste sui terrazzamenti dell’Aspromonte. Campi spesso individuati e sequestrati nel corso delle indagini, al pari di fucili, pistole e mitra trovati e messi in sicurezza nel corso di una serie di blitz.
Tratto da Repubblica.It