LA RELAZIONE DELLA DIREZIONE INVESTIGATIVA ANTIMAFIA RIVELA UN QUADRO ALLARMANTE
di Arcangelo Badolati
La ’ndrangheta è un problema di sicurezza nazionale. Lo certifica nero su bianco la Direzione Investigativa Antimafia nella sua ultima relazione semestrale. I boss nostrani, travestiti da manager e imprenditori, condizionano le attività economiche del Paese, colludono con la politica e riciclano capitali rilevando aziende, esercizi pubblici e impianti turistico-ricettivi. Non solo: in più occasioni le cosche hanno messo mani e piedi nel settore dell’accoglienza ai migranti, infiltrandosi nei centri di accoglienza per imporre forniture di materiali e lucrare sulla dotazione economica riservata a ciascun rifugiato.
La politica
Le emergenze investigative e le inchieste giudiziarie rivelano pure un altro inoppugnabile dato: la ’ndrangheta ha mostrato una diabolica capacità d’infiltrarsi stabilmente negli enti pubblici territoriali. Le assemblee municipali vengono sciolte con drammatica continuità ormai da due decenni e non solo in Calabria. A Leinì in Piemonte e Brescello in Emilia Romagna (i casi più recenti in Settentrione d’Italia) devono aggiungersi i cinque sciolti, in un solo giorno, il 22 novembre 2017, tra il Pollino e l’Aspromonte.
In un colpo solo il Consiglio dei ministri, su proposta di Marco Minniti, ha sciolto per mafia Lamezia Terme, Isola Capo Rizzuto, Cassano Jonio, Marina di Gioiosa Jonica e Petronà che si sono aggiunti agli altri sette “commissariati” nel medesimo anno solare. Il 26 aprile del 2018 è toccato invece ai comuni di Limbadi e Platì; l’8 maggio a quelli di San Gregorio d’Ippona e Briatico. Nei complessivi sedici enti pubblici territoriali, secondo il Viminale, sono stati accertati «gravi condizionamenti da parte della criminalità organizzata con pesanti ripercussioni sulle attività degli enti». La tesi del Viminale sembra essere confermata anche da numerosi pronunciamenti giudiziari che hanno riguardato pure ex amministratori condannati con sentenze definitive per partecipazione ad associazioni mafiose.
L’espansione
Tornando all’economia non c’è azienda in Piemonte, Lombardia, Liguria, Umbria, Toscana, Lazio, Emilia Romagna e Veneto che non abbia sperimentato la diabolica capacità dei boss calabresi di alterare e condizionare il mercato e la libera concorrenza, di impadronirsi con capitali freschi di imprese in difficoltà economica, di scalare, addirittura, i vertici di banche e istituti di credito. Fatto scempio della Penisola, le consorterie hanno scatenato la loro campagna di “colonizzazione” dell’Europa, investendo in immobili e attività commerciali nell’Est europeo (Polonia, Slovacchia, Ungheria), in Olanda, Belgio e Spagna, ripetendo l’offensiva scattata già negli anni ’70 in Germania, Francia del Sud, Australia e Canada. Quella della seconda metà del Novecento fu un’azione di espansione avviata sfruttando in modo deviato il fenomeno dell’emigrazione, mentre quella dei nostri giorni si compie attraverso gli strumenti della globalizzazione. Basta un “clic” sulla tastiera di un computer per contattare partner commerciali, avviare “collaborazioni” e stabilire patti finanziari e investimenti poi perfezionati attraverso società costituite ad hoc nei paradisi fiscali e manager prezzolati e insospettabili pronti ad imbarcarsi sul primo aereo per firmare contratti e stabilire quote e dividendi. Il Vecchio continente s’è accorto dei “picciotti” partiti dalla Locride o dalla Piana di Gioia Tauro, dal Vibonese o dal Crotonese, dal Cetrarese o dalla Sibaritide, solo dopo la strage di Duisburg, nel 2007, quando i “vendicatori” di San Luca saldarono i loro conti facendo sei vittime davanti ad una pizzeria ch’era appena stata sede di un rito di “affiliazione”.
Il welfare mafioso
La Dia sostiene che le cosche calabresi offrano posti di lavori, naturalmente con salari ridotti, approfittando della disastrosa situazione in cui versa il Meridione «consolidando così il controllo del tessuto economico e sociale». La morale, alla fine, è sempre la stessa: a fronte delle immense ricchezze accumulate dai padrini e dalle loro famiglie tutto il resto dei “sottomessi” rimane in una condizione di miserevole precariato.