Il primo marzo 2008 il “capo locale” di Cuorgnè, in Piemonte, mentre si trova all’interno della propria autovettura unitamente al “capo locale” di Mammola, (quest’ultimo presente sul territorio piemontese in rappresentanza dell’organizzazione calabrese), afferma: «la famiglia è unica perché è inutile che a Mammola o a Condofuri non possono cantare due galli, canta un gallo qualsiasi cosa succede e si decide e tutti assieme, perché come a Cuorgnè come a tutte le parti».
Il “capo locale” di Cuorgnè, intercettato nell’ambito dell’inchiesta “Minotauro”, mette in evidenza una peculiarità dell’associazione criminosa ‘ndranghetistica, la stessa è sì una compagine malavitosa di matrice calabrese, ma in Piemonte ha trovato terreno fertile per crescere e svilupparsi negli anni, con una gestione illecita del territorio insediatasi stabilmente come avvenuto nel tessuto sociale calabrese, con caratteristiche strutturali identiche alle “locali” originarie, di cui “quelle piemontesi” sono espressione. E si trova conferma di tale radicato insediamento del fenomeno associativo calabrese in Piemonte proprio nelle pregresse esperienze processuali, le quali rappresentano un unicum nel panorama giudiziario del Nord Italia, “attestando” storicamente l’insediamento della ‘ndrangheta sul territorio. A questo proposito merita ricordare, in ossequio a quanto riportato dallo stesso “boss” trapiantato in Piemonte, il “processo Cartagine”, svoltosi dinanzi alla Corte d’Assise di Torino, che ha visto quale imputato principale tale Belfiore, nell’ambito di un imponente procedimento a carico della criminalità organizzata calabrese e in particolare della faida “Belfiore-Saffiotti” che ha collezionato, tra gli anni 80 e 90, sul territorio piemontese, un numero impressionante di omicidi. La lettura delle sentenze riguardanti il processo c.d. “Cartagine” dimostra, tra l’altro, la vicinanza della consorteria mafiosa denominata “Clan Belfiore” a importanti famiglie storiche della criminalità calabrese, quali il “clan Molè – Piromalli” di Gioia Tauro, i “Commisso” di Siderno, la famiglia “Mazzaferro” di Gioiosa Ionica.
L’insediamento criminale in Piemonte della ‘ndrangheta calabrese rappresenta una proiezione in realtà stabile dell’associazione criminale originaria, tale da possedere significativi margini di autonomia da rendere anch’essa, come quella presente in Lombardia, una organizzazione criminale dotata di una certa indipendenza dalla cd. “mamma del crimine” di Polsi. È, in sostanza, la connaturale struttura verticistica della ‘ndrangheta a imporre il mantenimento degli stretti rapporti che verranno analizzati nel prosieguo e che dimostrano una certa dipendenza della compagine piemontese da quella calabrese per le più rilevanti scelte strategiche, senza però che, per effetto di tale dipendenza “autorizzativa” (le cd. “ambasciate”), venga minata l’acquisita autonomia strutturale dell’organizzazione locale.
Il quadro indiziario originario è venuto man mano a espandersi e ad arricchirsi non solo con riguardo ad alcuni gravi delitti avvenuti nell’ultimo decennio sia in Piemonte che in Calabria, ma soprattutto in relazione alla struttura e finalità di un’organizzazione criminale – tenacemente e capillarmente radicata nel territorio – che nel corso degli anni ha tessuto una robusta e composita trama di attività illecite tra le quali: il traffico di stupefacenti, il racket delle estorsioni, la disponibilità di armi, l’assistenza e il favoreggiamento degli affiliati latitanti o ricercati, le truffe, l’usura, il gioco d’azzardo, le infiltrazione di alcuni settori dell’economia, il riciclaggio e i rapporti con la politica per il rastrellamento di voti in occasione di consultazioni elettorali.
Nell’insieme, nel procedimento “Minotauro”, è emerso uno scenario articolato e complesso, in cui la ‘ndrangheta, grazie alla sua indole mimetica, si è affermata quale potente organizzazione criminale attiva (meglio “operativa” per usare il linguaggio di un collaboratore di giustizia) anche in Piemonte.
Fonte: www.larivieraonline.com